Mare malinconia

Altra notte di tormento.

Paura di non aver messo la sveglia, la gola che gratta un po’. Un soffitto uniforme che non aiuta a rilassarsi, perché sono abituata a contare le cose quando non dormo o quando mi sento un elefante seduto sul petto.

E questo elefante ha un nome, ha un perché, e non lo posso spostare perché da sola è impossibile, non posso farcela.

Guardo l’armadio aperto, figlio di una valigia fatta senza pensare. Penso ai miei bambini che mi mandano i video per sapere cosa ho mangiato. Le consapevolezze stanno prendendo forma.

Sarà questo ciò che mi attende, da adesso in poi?

Sorrisi falsi come la vita e lacrime vere da nascondere?

Alone

Sto invecchiando.

43 anni sono lì, li tocco. Li vedo.

Li vedo nelle rughe del viso che si fanno più profonde, nei fili bianchi che stanno colonizzando il mio pixie, nella faccia gonfia del mattino e nella schiena che si affatica facilmente.

43, manca poco.

E penso a quella canzone di Noemi bella bellissima, uscita dalla penna di Vasco. Quanta vita buttata per niente.

I sentieri dell’analisi riconducibili a un male unico, un male che era bene ma che mi ha fatto costruire un mondo che non sempre esiste, un mondo nel quale sono brava e buona, ma quando Matrix si impalla ho solo feriti e muri crollati ad aspettarmi.

I sorrisi dei miei figli sono una cosa buona, ma chissà se la storia si ripeterà perché io non l’ho imparata?

Ma vado contro le mie convinzioni di una vita quando penso che forse il futuro si può cambiare.

Lo specchio mi rimanda palpebre sempre più difficili da truccare, e le notti non si lasciano mai dormire quanto vorrei.

Però se la paura di ricalcare i passi di chi mi ha preceduta è forte, è forte anche la consapevolezza che non posso vivere recriminando me stessa e le mie azioni terribili, ma posso solo caricarmi di responsabilità vere e provare, dove posso, se il tempo me lo lascerà fare, a ricostruire.

Dal secondo giorno di Sigep, al momento, è tutto

E ti vorrei rincorrere

Sgrido i miei figli perché non hanno cura delle loro cose. Perché hanno smesso di guardare i loro regali di Natale dopo 24 ore dall’averli scartati.

Mi altero perché hanno voluto tanto una cosa, si sono impegnati per averla e poi l’hanno rovinata pur amandola.

Il Natale dei bambini come i miei è metafora della vita, a volte.

Accadono cose che spengono gli interruttori, e anche se il pulsante è lì, a poca distanza da te, non alzi la mano per tornare a fare luce, ma rendi il tuo buio un inferno di sofferenza del quale però non valuti le conseguenze. E non pensi che quell’inferno te lo sei creato da solo con scelte, azioni, bugie e pensieri.

Poi finalmente rinsavisci, e fai fare click a quell’interruttore. E magari non ti volti a guardare, alla luce di una mente savia, che disastro hai combinato. Ma ci stendi a occhi chiusi un lenzuolo sopra e vai avanti, sperando solo che quella luce non si spenga più, e che quel buio non torni mai fuori.

Solo che non va proprio così, come diceva Max. Non esistono vite perfette, anche se i social vogliono farcelo credere minando fragili autostime e scavando buche pericolose nei percorsi di chi prova a farcela senza troppi lustrini e sorrisi falsi.

Succede che arriva un altro botto, che l’interruttore lo fa saltare. E nel buio prima brancoli, poi inizi ad abituarti, con un cuore che non senti più nel petto e osservando senza emozione le giravolte attorno a te di chi continua a vivere tendendoti una mano.

Non vedi gli occhi di chi c’è sempre stato, in quei momenti. Perché il buio è una zona di comfort dove il dolore ti veste come una brava commessa, dove non hai più rispetto in primis per te stesso, figuriamoci per gli altri. Così dal mazzo di carte delle persone che conosci vai a scegliere quelle che non saranno mai in grado di farti uscire da lì. Anzi. Sceglierai di giocare una partita infinita alle belle statuine con gente che ti dirà che quel buio è la luce vera. E il buio sale e piano piano ti riempie. Avvelena il buono di te. E diventi una persona che, se avrai la fortuna di rinsavire, non avresti nemmeno mai voluto incontrare, figuriamoci essere.

E il lenzuolo si alza e sei circondato da devastazione. Vorresti coprire gli specchi per non vedere riflessa la faccia di una persona che ha potuto davvero fare certe cose. Prima neghi. Poi ti giustifichi. Poi menti ancora. Poi a un certo punto forse capisci che non c’è rimedio per quel passato, che le macerie che vedi le hai create tu con le tue mani, che puoi asciugare le lacrime del dolore che hai provocato ma il dolore resterà sempre.

Allora provi. Raccogli tutto quello che ti è rimasto e ingaggi una lotta con te stesso per non cedere di nuovo a quel buio che ti chiama come una sirena incantatrice. Perché tornare a distruggere è più facile che provare a ricostruire.

Solo che chi hai ucciso nel tuo percorso non ti può perdonare

Tu non ti puoi perdonare.

Però devi provarci. Appellarti a tutta la forza che hai e mettere un pezzo di scotch su quell’interruttore, così il buio non può più tornare.

Oggi è lunedì e sta per iniziare l’ennesimo periodo difficile. Spegnere la sveglia e girarmi dall’altra parte è stato l’istinto primario. Poi ho stretto una mano tra le mie e mi sono alzata.

Lo scotch è saldo.

Paura

La pelle è sottile in quel punto dove si può respirare un cuore che batte.
Una piccola porzione di corpo, morbida e palpitante, in realtà è l’enorme specchio di un’anima intera.

Ho strofinato migliaia di volte la punta del naso sulla seta di quella zona, perché il battito del cuore, costante, lento e rombante, o alle volte isterico come un cavallo furioso lasciato senza briglie, amplifica il profumo unico di una pelle gemella alla mia.
E migliaia di volte ho riconosciuto quel profumo come casa, un posto sicuro come un abbraccio che si può dare anche senza toccarsi. Quel punto del corpo parla più della bocca, comunica più dello sguardo più potente che possiamo ricevere. Quel punto non mente, se ci appoggi la punta delle dita ti sembra di sentire scorrere, caldo, il sangue, ti sembra di toccare la vita e di accarezzare il cuore. Ti sembra di sentire un’anima che passeggia attraverso un corpo.

E nel momento in cui, nel buio della notte, nel silenzio di una stanza popolata da respiri, le labbra, avide ma delicate, si appoggiano in quel punto, l’emozione diventa un gesto che non si può replicare. Riconoscere anche a occhi chiusi la serica pelle poco sotto l’orecchio, dove la gola si fa vulnerabile, rimane un sentire che provo a descrivere in parole ma ne sarei in grado, forse, solo se fossi qualcosa di simile a Saffo.

Un’ancora in un mare apparentemente calmo, pieno di correnti sotto la superficie pronte a provare a trascinarmi giù, a farmi desistere. Ma ho quel battito sotto le dita, ho quel calore che profuma le labbra.

E non mi lascerò vincere da una corrente che non sa dove vuole andare.

Che ne diresti

Sono passati molti giorni dal mio ultimo scritto, ma le mie dita si erano bloccate, inibite da una mente che non sta funzionando come dovrebbe, e da un cuore che fa i capricci in tutti i sensi.

Ma oggi, con la testa che frulla tra mille pensieri, dopo aver ricevuto, proprio oggi, un bellissimo messaggio da una persona che ho trattato male e che mi rendo conto che se solo, se solo l’avessi scelta come destinataria di altri messaggi, tempo fa, oggi scriverei una storia diversa.

Indietro non si torna, non si può. Nel bilancio di 42, quasi 43 anni di vita mi rendo conto di come invece ho sempre pensato che se un errore non lo potevo cancellare rifacendo, nel momento dell’inciampo, la cosa giusta, ho ritenuto una saggia via di fuga dalla responsabilità di un’esistenza quasi del tutto finta il sotterrare, il rimuovere, lo scegliere come motto esistenziale “se non ci penso, non esiste”.

Poi il 2023 il conto me lo ha presentato. Salato, senza sconti, con interessi e sanzioni e ingiunzione di pagamento entro pochi giorni dalla notifica. 
Me lo ha presentato togliendomi mia madre, anche se quello era un addebito di cui ero a conoscenza con un certo preavviso. 
Me lo ha presentato facendomi rendere conto della terra bruciata che mi circonda, dove le sole cose che sono rimaste vive le sto soffocando calpestandole e mancando loro di rispetto.
Me lo ha presentato sciorinandomi un papiro di errori che, come detto prima, avevo cancellato dalla mia memoria. 
Me lo ha presentato facendomi vedere, allo specchio, una persona che non sono io, anche se io non so chi sono, ma so, almeno, chi non voglio più essere.

Ed è nel fango nero e soffocante del rimorso per i respiri corrotti degli ultimi anni, nei cocci appuntiti di un cuore frantumato che mi sono resa conto che c’è una mano che si intreccia alla mia senza guardare i movimenti del corpo, senza che gli occhi incrocino i loro sguardi traboccanti di emozioni che fanno a botte tra loro.

Una diga si è rotta, il paese è distrutto ma ogni cosa si può ricostruire.

Perché in quegli occhi c’è tutta una vita che intreccia i fili con la mia. Io vedo un arazzo dove ora ci sono rovine. Vedo rosso, blu e giallo dove ora c’è solo grigia polvere, dove ora si respira nebbia. 

E orme sul un bagnasciuga al tramonto, orme che si allineano vicine, in una danza fatta di complicità, consapevoli del fatto che un’onda, ogni volta, passerà a cancellare quel che sono state, ma se ne fregano e continuano creando nuove tracce, sempre diverse, sempre insieme, tenute unite da quelle dita intrecciate senza bisogno di chiedere niente.

Quindi, il bilancio di quest’anno è quello della conta dei danni dopo un terremoto distruttivo, e ci sono tante macerie da spostare per curare i sopravvissuti.

Sarà quindi il 2024 un anno di ricostruzione. 
Di cura e di verità.
Di riconoscenza sincera.
Di nuove fotografie.

Finisci, 2023. Finiscimi se serve.

Poi rinascerò, piantando nuovi fiori nel vecchio, amato ma bistrattato giardino, per dargli nuova vita, nuova linfa, nuovi colori e profumi.

Finisci.

E rinasci.

Una pozzanghera illusa

Ciao mamma,

Il tempo scorre, sabbia tra le dita. Ogni tanto lascia qualche pezzetto più grande, un frammento di conchiglia, una scheggia di vetro, un sassolino.

Li guardo nel palmo della mano e penso a come debba essere, ora, per te, che sei ovunque e non sei da nessuna parte, guardarmi.

Ci sarà biasimo nei tuoi occhi, come spesso è successo. Perché sei mia madre e ci siamo amate come non saprò mai descrivere, ma le rose e i fiori nel nostro cammino sono stati pochi, rari. Erano di più gli scontri, le incomprensioni e le discussioni. In disaccordo su tutto.

Per questo mi porto dietro un bagaglio che sloga la spalla per quanto pesa. Un macigno di cose non dette o dette male. Un baule di errori fatti con consapevolezza, alle volte, con superficialità altre.

E al contrario di Re Mida che trasformava tutto ciò che toccava in oro, io ho il superpotere di polverizzare le cose belle che ho. Amicizie, relazioni. La famiglia.

Sento la tristezza nel tuo sguardo, ora. Sento la tua delusione perché non solo non vado avanti, ma come il fiume che non viene accettato dal mare risalgo il corso controcorrente.

Io sono morta prima di te, a giugno di quel maledetto 2020. A marzo di quest’anno la tua sofferenza è rimasta a noi che eravamo con te e ce la siamo divisa. Solo che io non ne ho fatto esperienza.

Sono quello che ho sempre pensato di essere.

Guarda da un’altra parte, mamma. Già hai patito abbastanza nella vita per patire ancora guardando le rovine della vita che smantello ogni giorno con queste mani.

All’alba nella via

Cara mamma,

La gioia di alzarsi alle cinque con il cielo che diventa limpido di minuto in minuto è un ricordo dell’estate che se ne è andata. Fa ancora un caldo afoso e appiccicoso, ma ormai sappiamo che ottobre is the new settembre che is the secondo agosto, quindi aspettiamo.

È buio e i vestiti dei bimbi sono pronti, io ho già digerito la colazione, stanotte ho sognato che parlavo di te con il mio primo capo, unico per il quale provo ancora affetto e stima.

Domani a quest’ora sono già partita con il treno, ho paura, sai. Perché gli anni passano ma tutte le fobie accatastate in una vita continuano a fare ombra, e ancora non so cosa voglio fare da grande.

Avrei bisogno ancora di qualche tua parola. Dei tuoi rimproveri. Di risponderti male e poi sentirmi di merda e cambiare argomento sperando di far passare in cavalleria le mie paturnie da maleducata.

Vedo in Giorgia prematuri segnali di adolescenza e penso alla guerra che sarà.

Penso che sento la tua voce quando preparo le liste delle cose da non dimenticare, e penso che ho comprato un pigiama ma non delle pantofole decenti.

Imparerò mamma. Un giorno, forse.

Partner in crime

Indossavo un cappotto bianco e la borsa rossa che mi aveva regalato mamma, il giorno in cui ti ho conosciuta.

Indossavi, tu, una camicetta che avresti macchiato con il gel disinfettante offrendomi il primo di tanti caffè insieme, consumati in piedi perché pare che noi Veneti il caffè non ce lo sappiamo godere.

Ho incrociato nel tuo sguardo, quel giorno di aprile, stanchezza, speranza, rassegnazione, curiosità.

Non mi hai mai lasciata sola in questa nuova fase della vita, fase che ci ha viste prima vicine, ora una davanti all’altra, a scambiarci occhiate, sopracciglia sollevate, unghie piantate nelle ginocchia.

Il 4 ottobre è un giorno a me carissimo. Si festeggia il mio Santo del cuore, che la mia mamma amava tanto. E penso che non sia un caso se sei nata proprio oggi, anche se a differenza dell’amato Francesco, tu e gli animali non andate proprio proprio d’accordo.

Oggi andrà così. Aspetterò di sentirti entrare dalla porta, probabilmente al telefono per qualche chiamata alla quale non potevi non rispondere.

È il 4 ottobre.

Buon compleanno Mary.

Prendere o lasciare

22 settembre, ieri.

Ci siamo, è autunno. E ha piovuto, e io ero arrabbiata perché non sono stata abbastanza sicura da indossare le scarpe chiuse, me ne sono uscita di casa in sabot scamosciati che ora non sono proprio al massimo della loro forma.

Ma non importa. Oggi il cielo è azzurro pastello, le foglie iniziano a sembrare più pesanti, invecchiano, pronte a danzare nel vento fresco che le farà diventare tappeto dopo un’estate trascorsa a essere ornamento.

Cercare il lenzuolo, stanotte. Pensare ai pigiami per i bambini, è ora di coprirsi. Funghi e zucca si aprono la strada verso ottobre, uno dei miei mesi preferiti.

E sarà sempre accompagnato da malinconia, e dall’angoscia del più odioso dei Natali. Ma è un mese che merita il mio amore. Voglio vedere le nuvole riflesse nelle pozzanghere e sentirmi bambina ancora per un po’.

Buon sabato, intanto vado a tatuarmi di nuovo.

Lose control

I profili delle montagne questa sera regalano emozioni controverse. Una parte di me accarezza con lo sguardo la linea scura che contrasta con questo cielo azzurro pastello. Un’altra invece vorrebbe non avere sempre sotto gli occhi qualcosa che amo così tanto.

Il tramonto si sta avvicinando e settembre mi ha travolta con tutti i suoi colori, I suoi profumi, questo clima che ti illude che l’estate non sia ancora finita e allo stesso tempo che l’autunno ormai stia bussando alla tua porta.

Come dicevo qualche giorno fa ad una persona a me cara anche se non la vedo da un bel po’, da quel 20 marzo ogni giorno è un primo giorno senza la Mamma.

Fatico quindi a mettere in piedi le mie giornate con regolarità, avrei voglia di dormire sempre, avrei voglia di leggere, avrei voglia di cantare, avrei voglia di ricominciare a fare la pizza, avrei voglia di uscire con i colleghi per vedere delle persone a cui mi sono tanto affezionata anche al di fuori del contesto delle nostre scrivanie bianche.

Le montagne sono sempre lì. Davanti agli occhi quando parto al mattino, davanti agli occhi quando rientro la sera virgola mi ricordi di una bambina ormai abbondantemente adulta, nella galleria di fotografie del mio cellulare, ma soprattutto nel mio cuore.

È da sempre da quel 20 marzo che non riesco a non immaginare mia madre in quello che ho sempre reputato il suo habitat naturale.

La immagino vestita di blu, con i capelli in ordine, mossi dal vento e illuminati dal sole.

La immagino ovviamente con il pino, suo primo grande amore canino. Immagino il suo sguardo amorevole rivolto verso Chi ha lasciato qui.

Nonostante tutto, ho superato questi mesi estivi che tanto temevo. Ho vissuto momenti belli Resi meravigliosi dal suo ricordo e da una presenza che pure essendo assenza pesa tantissimo.

La parte difficile arriva adesso; la scuola che inizia, una routine che riprende, le giornate più corte porteranno sempre la mia mente a tutto quello che è stato e a tutto quello che non potrà più essere.

Ho raccolto i miei pezzi ma ancora non riesco a rimetterli insieme.

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